Analisi dei mercati del 20.07.2020

INDICI DI MERCATO

COMMENTO ULTIMA SETTIMANA

Prosegue il rialzo dei mercati azionari anche nella settimana che si è appena conclusa (MSCI World +1.5%). La differenza rispetto alle scorse è che questa volta il rialzo è stato guidato non dai titoli tecnologici americani (Nasdaq -1.76%), ma dai paesi e settori che erano rimasti più indietro: settore bancario europeo (Eurostoxx Banks +2.3%), small cap americane (Russell2000 +3.56%) e Italia (FtseMib +3.3%). Le aspettative circa un buon esito dei negoziati UE hanno portato ad un leggero restringimento dello spread BTP-Bund, sceso a 169bps, e ad un discreto apprezzamento dell’euro rispetto alle principali valute.

Il Consiglio Europeo, in riunione da venerdì per definire il pacchetto di misure a sostegno dell’economia dell’eurozona post pandemia (il c.d. Next Generation EU), durante gli incontri del week-end non ha prodotto alcun risultato. Il presidente Charles Michel, nel tentativo di avvicinare le richieste, aveva proposto una leggera modifica nel rapporto sussidi/prestiti: la proposta originaria prevedeva 500 miliardi di sussidi e 250 miliardi di prestiti, la modifica di Michel portava la quota di sussidi a 450 e di prestiti a 300 ma sembra che, neanche così, i paesi “frugali” (ai quali si è unita anche la Finlandia) capeggiati dal premier olandese Mark Rutte siano soddisfatti dato che non intendono concedere sussidi oltre i 390 miliardi e addirittura vorrebbero ridurre il pacchetto a 700 miliardi.

Sul fronte della pandemia se da un lato continuano a peggiorare i dati sui contagi, specialmente in alcuni paesi, è anche vero che si fanno progressi sulla ricerca del vaccino: l’americana Moderna, ad esempio, ritiene che il suo vaccino, che si basa sostanzialmente su un innalzamento del numero di anticorpi, sembra stia dando ottimi risultati e il 27 luglio entrerà nella fase finale dei test clinici, la cosiddetta fase 3, che coinvolgerà 30.000 persone e che vedrà la conclusione a ottobre. Teniamo conto del fatto che l’aumento degli anticorpi più provocare effetti collaterali e questo è il fattore che più spaventa la gente che, forse, non correrà in massa a farsi vaccinare fintanto che non ci saranno maggiori certezze su tutti gli effetti. Anche AstraZeneca, collaborando con l’Università di Oxford, sembra a buon punto e potrebbe avviare la produzione di massa già a settembre. E’ importante che tante aziende siano coinvolte nello sviluppo del vaccino per garantire un’adeguata numerosità delle dosi disponibili.

La reporting season americana è partita abbastanza bene: con il 10% delle società dell’S&P500 che ha pubblicato i numeri del secondo trimestre la discesa degli utili si attesta a -19%, meglio delle attese degli analisti di circa il 17%. Le banche, fra le prime a riportare, hanno beneficiato dell’ottimo andamento dell’attività di trading ma sono state penalizzate dall’attività tipica bancaria a causa dei maggiori accantonamenti sui crediti che raggiungono i livelli del 2008 (segnale, forse, di scarso ottimismo sul futuro). Mentre Citigroup, JPM, Wells Fargo e BofA hanno una tipologia di business più orientata ai consumatori e al ramo commerciale (quindi più tipicamente bancaria) ed hanno, di conseguenza, sofferto dei default di qualche cliente e degli accantonamenti precauzionali, Goldman Sachs e Morgan Stanley (più investment banks) hanno battuto le previsioni degli analisti grazie all’intensa attività di trading che ha caratterizzato il periodo del lockdown. Bank of America, ad esempio, la seconda banca più grande degli Stati Uniti, è risultata estremamente sensibile all’andamento dell’economia e ha riportato un crollo di utili pari al 52%; per contro Morgan Stanley ha visto utili in aumento del 45% grazie alla divisione trading (soprattutto obbligazionario). Anche da questo punto di vista si nota il distaccamento di Wall Street (indici sui massimi e banche esposte che ben riportano) rispetto a Main Street (economia reale che soffre la recessione e banche commerciali, di conseguenza, in crisi).

Anche J&J pur riportando meglio delle attese ha visto i ricavi ridursi dell’11% e gli utili del 35%.

Fra i dati macroeconomici principali segnaliamo in Cina numeri, nel complesso, buoni anche se con ampi spazi di miglioramento:

  • GDP secondo trimestre: +11.50% trimestre/trimestre, meglio delle attese (+9.6%) e con una crescita che si attesta a 3.2% anno/anno (dopo il -6.8% del trimestre precedente);
  • produzione industriale di giugno: in miglioramento a +4.8% anno/anno dal +4.4% di maggio;
  • vendite al dettaglio di giugno: ancora negative a -1.8% (rispetto ad attese di +0.5%).

A sorpresa, dopo un CdA straordinario venerdì sera, IntesaSanPaolo ha alzato l’offerta per UBI aggiungendo 0.57 euro in cash per ogni azione (per un totale di 652 milioni in più). Dopo che anche l’Antitrust ha dato il via libera all’operazione l’AD Messina, al termine di una serie di negoziazioni con gli azionisti principali (che chiedevano 1 euro in più cash), ha deciso di aumentare l’appeal dell’offerta in modo da ottenere il 66.7% delle adesioni che consentirebbe una fusione senza troppi problemi. Il premio, rispetto ai prezzi del 14 febbraio quando è stata lanciata l’operazione, passa dal 28% al 44.7%. Nei prossimi giorni si riunirà il CdA di Ubi per valutare la nuova offerta (ricordiamo che la vecchia era stata respinta in quanto si riteneva sottovalutasse Ubi di circa 1.1 miliardi di euro).

Per rispettare quanto richiesto dall’Antitrust entro sei mesi ISP dovrà vendere 532 sportelli ex Ubi a Bper e, qualora non dovesse riuscirci, avrà altri sei mesi di tempo per affidarsi ad un intermediario indipendente. Dovesse l’operazione passare con almeno il 2/3 del capitale (66.67%) Ubi non potrebbe sollevare contestazioni alla vendita del ramo d’azienda e sarebbe tutto più semplice.

Le fondazioni CR Cuneo e Banca del Monte di Lombardia hanno già dichiarato che intendono aderire all’offerta con il loro 10%. Considerando anche Cattolica e il Sindacato azionisti di Ubi, si arriverebbe ad un’adesione superiore al 20%. I fondi hanno in mano circa il 40% delle azioni e dovrebbero accettare lo scambio di azioni dopo il rilancio. Sembra quindi facilmente raggiungibile la quota del 50% ma adesso il traguardo è diventato i 2/3 del capitale per la convocazione di un’assemblea straordinaria che approvi la fusione. Ricordiamo che c’è tempo fino al 28 luglio per aderire.

Sul tema ASPI viene meno la minacciata revoca della concessione autostradale ad Atlantia ma si apre invece lo scenario di un aumento di capitale che consentirà a CDP di entrare nella compagine azionaria con una quota del 33% andando, di fatto, a diluire Atlantia (quindi la famiglia Benetton). Si parla di un investimento di CDP fra i 3 e i 4 miliardi di euro con una valutazione implicita di ASPI fra 6 e 8 miliardi (secondo gli analisti di Banca Imi dovrebbe invece valere circa 11 miliardi). La quota di Atlantia scenderebbe sotto il 10% di ASPI ma non dimentichiamo che Atlantia ha in pancia, tra le tante partecipazioni, anche Abertis (che gestisce all’estero il triplo della rete di ASPI) e Telepass (per la quale è attesa la quotazione).

Dalla riunione dei produttori di petrolio è emerso che l’OPEC+ intende aumentare di 1 milione di barili al giorno la produzione a partire dal mese di agosto. I tagli che erano stati fissati a 9.6 milioni di barili la scorsa primavera dovrebbero quindi scendere anche se meno di quanto si ipotizzava nei giorni precedenti all’accordo.

QUESTA SETTIMANA

La principale variabile da monitorare continua ad essere la diffusione della pandemia e quindi i dati sui contagi in quanto il rischio principale per l’economia, ed i mercati, è una seconda ondata (considerato che alcuni stati non sono ancora usciti dalla prima) che metterebbe a serio rischio la debolissima ripresa che si intravede dai dati macro anticipatori.

Negli Stati Uniti, inoltre, l’incapacità di mettere sotto controllo il virus avrebbe una ripercussione negativa sui sondaggi elettorali a sfavore di Trump. Nessun presidente uscente riesce ad essere riconfermato se il paese sta attraversando una recessione e per quanto Trump addossi la colpa alla Cina (e talvolta alla Fed) gli americani gli attribuiranno la responsabilità della gestione inefficiente della pandemia in US.

Lunedì 20 luglio alle ore 16 proseguirà il vertice tra i leader UE per trovare un accordo sul Recovery Fund, in caso contrario potrebbe essere preso un altro mese di tempo. Secondo Christine Lagarde un piano di emergenza ambizioso è preferibile ad un accordo a tutti i costi in tempi rapidi. Sul tavolo ci sono circa 1800 miliardi (di cui 750 per il Recovery Fund) e sarebbe una cifra assolutamente eccezionale e ritenuta indispensabile per una crisi così profonda. L’Olanda vorrebbe entrare nel merito delle politiche di riforma dei paesi UE ma, soprattutto Italia e Spagna, ritengono la richiesta inaccettabile.

La reporting season vedrà protagoniste società pari al 24% dell’S&P500 (per il mercato US) e al 17% dello Stoxx600 (per il mercato europeo). Fra le società che riporteranno i dati del secondo trimestre segnaliamo martedì UBS e mercoledì Tesla.

Giovedì 23 in US verrà pubblicato il dato settimanale sulle richieste di sussidi di disoccupazione (jobless claims), le attese sono per 1.280.000 di richieste da 1.3 milioni della settimana precedente. Gradualmente il dato si sta riducendo: per avere un’idea, dopo essere stato per anni in un intorno di 200.000 richieste alla settimana, a inizio aprile, con il lockdown, è esploso a quasi 6.9 milioni di richieste, adesso sta lentamente ridimensionandosi.

La settimana vedrà la pubblicazione dei dati preliminari PMI per le varie regioni e relativi al mese di luglio: ci si attende una continuazione della ripresa. Negli Stati Uniti le stime portano i numeri sopra la soglia del 50 (punto di demarcazione fra espansione e contrazione economica) sia per il comparto manifatturiero che per quello dei servizi; stessa cosa in Eurozona dove però il dato per il comparto manifatturiero, a causa della Germania, è in ripresa ma rimane inferiore al 50.

CONSIDERAZIONI FINALI E POSIZIONAMENTO LINEE DI GESTIONE

Come anche Jamie Dimon (CEO e chairman di JPM) fa notare, la recessione è molto particolare e l’azione di contenimento e stimolo di Fed e Governo sono state in grado per ora di tamponarne gli effetti che quindi non si sono visti nell’immediato. Il rischio è che se questo non dovesse bastare oltre ad avere un enorme danno nel settore privato avremmo anche una voragine in quello pubblico. Da qui l’aspettativa dei mercati di un intervento sempre presente e massiccio almeno fintanto che non si è sicuri di essere definitivamente fuori dalla crisi.

L’importante ruolo delle banche centrali nel recente rally dei mercati, sia obbligazionari che azionari, è sottolineato anche in un interessante articolo del Il sole 24 ore uscito in settimana. Invece di parlare di bolla (il cui scoppio è temuto da tutti) si dovrebbe parlare di “inflazione finanziaria”: la prima di solito segue un percorso classico (aspettativa di rialzi à contagio/avidità di chi non vuole perdere l’occasione à testardaggine di chi nega che si tratti di una bolla à scoppio della bolla quando sorgono i primi dubbi sulla sostenibilità dei prezzi) ma non prevede come principale attore le banche centrali. Queste ultime di solito non partecipano alla formazione di bolle ma ne causano lo scoppio. Chi invece di solito crea le bolle sono il cosiddetto “parco buoi”. Ma, lasciando per un attimo da parte il mercato azionario, siamo sicuri che il parco buoi abbia partecipato al rally di quello obbligazionario? Siamo sicuri che la gente stia comprando il bund con il rendimento negativo?

Quello che qualcuno definisce bolla ma che l’articolo ritiene si debba considerare inflazione finanziaria deriva dalla liquidità iniettata nel sistema dalle banche centrali. (Le banche centrali acquistano bond (inflazionandone il valore) e immettono nel sistema della liquidità che cerca un parcheggio remunerativo: i bond (soprattutto governativi) sono quasi ai massimi storici (con conseguenti rendimenti ai minimi), le materie prime (vicine ai minimi dagli ultimi 20 anni) sono estremamente legate al ciclo economico ancora debole e così entrano in gioco le azioni che beneficiano ancora della mancanza di alternative (ricordiamoci dell’acronimo coniato l’anno scorso, TINA – There is no alternative). Fintanto che le banche centrali rimarranno impegnate nel sistema (e come detto sopra lo faranno ancora a lungo) i mercati dovrebbero rimanere supportati sia sul lato obbligazionario (con rendimenti minimi) sia su quello azionario (con rendimenti maggiori potenzialmente ma anche più volatili).

La buona performance della maggior parte delle asset class ha consentito alle nostre linee di gestione di guadagnare anche questa settimana. L’unica a soffrire, andando a consolidare una performance comunque molto buona, è la linea Chornos per la maggiore esposizione al mercato americano (soprattutto tech) e al dollaro.

Analisi dei mercati del 26.11.2019

L’andamento dei mercati è ancora altalenante e varia in funzione delle notizie provenienti dai negoziati: Trump ha minacciato di introdurre nuove tariffe sui beni cinesi se non verrà siglato al più presto un accordo commerciale con Pechino e consideriamo che manca meno di un mese all’introduzione delle nuove tariffe previste per metà dicembre.

A gettare benzina sul fuoco anche l’approvazione, da parte del congresso americano, del disegno di legge “Hong Kong human rights and democracy act” che impone al dipartimento americano di valutare annualmente l’effettiva indipendenza della colonia britannica. Si temono ripercussioni sui negoziati dato che la Cina ha reso esplicito che non gradisce l’intromissione americana nelle vicende politiche e sociali interne. Ora spetta a Trump apporre la firma finale; Trump in questo momento potrebbe trovarsi in difficoltà perché ha bisogno della firma dell’accordo con la Cina (che sarebbe a rischio in caso di approvazione del disegno di legge) ma, vista l’approvazione congiunta di Senato e Camera, sarebbe poco giustificata una bocciatura da parte della presidenza. Inoltre, Trump è politicamente in difficoltà anche perché è alle prese con la procedura di impeachment.

Hong Kong è importante per gli Stati Uniti dato che gode di un regime privilegiato di esenzioni con gli Usa e, inoltre, rappresenta quindi una porta di ingresso sul mercato cinese.

Nel fine settimana la volontà di trovare un accordo è emersa dalle parole del presidente cinese Xi Jingping il quale afferma che sta cercando di trovare un’intesa preliminare con gli USA per evitare una guerra commerciale ma ha anche avvertito di non avere paura di mettere in atto rappresaglie se necessario.

Il Renminbi, barometro delle tensioni, è in leggero indebolimento contro dollaro mentre la PBOC (Banca Centrale Cinese) continua con le manovre espansive mirate: in settimana ha tagliato il tasso “Loan Prime Rate” a 4.15% da 4.20%.

Durante l’incontro tra il presidente della Fed Powell e Trump alla Casa Bianca si sono toccati diversi temi sia di natura monetaria che economica. Si è discusso di tassi di interesse negativi (anche se ancora non ci sono in US) e Powell ha ribadito che le mosse di politica monetaria saranno basate su analisi attente della situazione economica e non dipenderanno da pressioni politiche in quanto gli obiettivi della politica monetaria rimangono la piena occupazione e la stabilità dei prezzi. Trump sembra soddisfatto dell’incontro.

Dal meeting di ottobre emerge una Fed divisa: 8 membri hanno votato a favore del taglio dei tassi contro 2 contrari.

Nei verbali relativi all’ultimo meeting di ottobre della BCE presieduto da Mario Draghi si conferma la fase attendista e, viste le divisioni interne che sono emerse, si è lanciato un forte richiamo all’unità, sottolineando come le discussioni vadano bene ma debbano poi tendere ad una decisione condivisa che consenta il raggiungimento dell’obiettivo principale della banca centrale, ovvero quello di inflazione. Christine Lagarde, effettivamente, assume la guida di un comitato diviso al suo interno in un momento molto delicato per la politica monetaria. Nel discorso, tenuto a Francoforte venerdì mattina, ha cercato di mantenere la continuità con il precedente presidente e, più che affrontare le tematiche di politica monetaria, ha ribadito nuovamente la necessità di politiche fiscali espansive, specialmente sul fronte degli investimenti.

Agli elementi che creano incertezza attorno ai BTP italiani, già citati nel commento di settimana scorsa (sistema di tiering, tensioni politiche e attribuzione di un grado di rischio anche ai titoli di stato nei bilanci delle banche), se ne è aggiunto un altro: la riforma dell’ESM (o MES, in italiano), ovvero il meccanismo europeo di stabilità, quello che è chiamato anche “fondo salva Stati”, che finora ha erogato 295 miliardi di prestiti a cinque paesi europei (Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Cipro) e che è alimentato dai versamenti dei parsi membri (l’Italia è il terzo contributore dopo Germania e Francia).

La riforma mette ben in chiaro che il MES fornisce assistenza e aiuto solo agli Stati con debito pubblico sostenibile (debito/Pil inferiore a 60% e deficit/Pil inferiore al 3% negli ultimi due anni) e ritenuti in grado di rimborsare i prestiti, inoltre assumerà la funzione di “backstop” del fondo di risoluzione unico delle banche ovvero garantirà una linea di credito di 70 miliardi, al Single Resolution Fund, a cui i vari paesi potranno accedere qualora i fondi nazionali per le risoluzioni bancarie (si tratta di risorse delle banche e non pubbliche) non siano sufficienti.

Per ora siamo ancora alle prime fasi: a dicembre (da 4 al 13) la riforma verrà discussa dall’Eurogruppo, successivamente si esprimeranno, durante l’Eurosummit, i capi di Stato e di Governo e infine tutti i 19 Parlamenti nazionali dell’Eurozona dovranno ratificare il provvedimento. Per approvare la riforma serve l’unanimità quindi l’Italia potrebbe porre il veto ma con il rischio di fare saltare il tavolo sulla garanzia dei depositi a livello europeo. Dovesse mancare la ratifica dell’Italia in sede parlamentare emergerebbe la coda di paglia del nostro paese, sarebbe più opportuno, quindi, cercare di rivedere alcuni punti dell’accordo prima della stesura definitiva.

Il punto critico per l’Italia è rappresentato dal rischio di una ristrutturazione del debito, sebbene non preventivamente richiesto dalla riforma, che quindi penalizzerebbe i BTP. Non si parla esplicitamente di ristrutturazione del debito ma si fa riferimento al “concorso anche dei privati”.

Fra i diversi discorsi dei membri delle banche centrali citiamo quello di Lane (capoeconomista della BCE) che, da un lato, ribadisce la necessità di riforme strutturali e stimoli fiscali indispensabili per la crescita economica, dall’altro, sottolinea che la BCE ha ancora spazio e non ha esaurito le opzioni monetarie.

Nonostante le continue sollecitazioni per una politica fiscale più accomodante in Germania la cancelliera Angela Merkel e il ministro delle finanze Olaf Scholz respingono la richiesta congiunta di imprenditori e sindacati tedeschi di risvegliare l’economia stagnante attraverso una maggiore spesa pubblica.

Venerdì sono usciti un po’ di dati PMI flash: in generale si è assistito ad un leggero miglioramento dei dati manifatturieri mentre per quelli relativi ai servizi c’è stato un leggero calo (pur rimanendo in area di espansione).

In Giappone entrambe le componenti, manifatturiero e servizi, sono migliorate; il dato aggregato europeo vede passare il PMI manifatturiero da 45.9 a 46.6 e quello relativo ai servizi rallentare da 52.2 a 51.5. Continua a fare bene la Francia e dalla Germania proseguono i segnali di miglioramento del manifatturiero (anche se rimane in contrazione); in indebolimento, e inferiori alle aspettative, quelli relativi a UK: il dato composite passa da 50 a 48.5. Di nuovo molto buoni i dati americani sia nella componente manifatturiera che in quella dei servizi, entrambe in crescita e in territorio di espansione.

Reuters riporta che le autorità di mercato europee stanno studiando limitazioni alle vendite allo scoperto in vista di una conclusione della saga Brexit. Se da un lato si potrebbe escludere una non deal brexit dall’altro rimarrebbero parecchie incertezze e questo porterebbe la Consob, ma anche le autorità di altri paesi, ad adottare restrizioni temporanee alle vendite allo scoperto

L’OCSE ha pubblicato il nuovo outlook nel quale rivede leggermente al rialzo la crescita mondiale (+2.9%) che si stabilizza al livello più basso dalla crisi finanziaria a causa della debolezza degli scambi e degli investimenti. Anche per quanto riguarda l’Italia la previsione viene leggermente rivista al rialzo (+0.2% per il 2019, 0.4% per il 2020 e 0.5% per il 2021), rimanendo comunque inferiore alle stime del governo, ma sottolineando che il debito rimane elevato e le riforme strutturali sono indispensabili.

Source: OECD

La settimana si conclude, quindi, con mercati azionari nel complesso leggermente negativi, quelli obbligazionari governativi vedono i rendimenti poco mossi così come il segmento a spread.

QUESTA SETTIMANA

Durante il fine settimana è emerso che la Cina potrebbe agire sul tema della proprietà intellettuale (tanto caro agli Stati Uniti) inasprendo le sanzioni. Il tema dei negoziati commerciali è destinato a rimanere al centro dell’attenzione anche questa settimana.

Lunedì 25 novembre, la Germania ha pubblicato l’IFO (indice di fiducia delle aziende tedesche) per il mese di novembre: le attese erano per un miglioramento sia nella componente expectations che current assessment e sono di fatto state confermate.

Source: Bloomberg

Mercoledì, negli Stati Uniti, avremo una serie di dati interessanti: oltre alla seconda stima sul Pil del terzo trimestre (atteso +1.9% trimestre/trimestre), verrà pubblicato il dato relativo al personal spending (atteso in crescita di 0.3% a ottobre), importante per il peso che i consumi hanno sul Pil americano (contano circa il 70%), e agli ordini di beni durevoli (attesi in calo). Importante anche il dato sull’inflazione segnalato dallo strumento preferito dalla Fed ovvero il PCE deflator (atteso a+1.4% anno/anno). Inoltre, verrà reso noto il Beige Book della Fed.

Giovedì si celebrerà il Thanksgiving e i mercati americani saranno chiusi e il giorno seguente avremo il “black Friday” che inaugura la stagione dello shopping prenatalizio.

Venerdì in Eurozona saranno importanti i dati sull’inflazione al consumo (CPI) preliminari di novembre attesi in leggero aumento ma comunque distanti ancora dal target di 2% della BCE.

È da parecchio tempo, ormai, che l’attenzione degli investitori è puntata sul tema dei negoziati commerciali. I presupposti per un accordo ci sono ed è interesse di entrambe le parti portarlo a termine: la Cina non ha il problema delle elezioni ma ha un’economia che dà segnali di rallentamento, Trump ha un’economia che comunque viaggia su livelli buoni ma ha il problema delle elezioni del 2020. È, quindi, di interesse di entrambi eliminare, almeno temporaneamente, un elemento di incertezza che sta pesando sulle aziende cinesi e che peserà presto su quelle americane e sui consumatori americani se i dazi del 15 dicembre verranno confermati.

Secondo l’economista americano di Nomura la fase uno dell’accordo potrebbe prevedere quindi la cancellazione dei dazi del 15 dicembre e la rimodulazione di quelli già in vigore a fronte di acquisti di prodotti agricoli da parte della Cina. La fase due (prevista per la primavera 2020) dovrebbe, invece, concentrarsi sull’apertura del settore finanziario cinese agli americani e qualcosa in tema di proprietà intellettuale. La fase tre potrebbe avvenire prima delle elezioni di novembre 2020 dovrebbe vedere la firma di un accordo completo di cooperazione economica e finanziaria relativa soprattutto alle aziende tecnologiche cinesi.

Abbiamo più volte detto come lo scetticismo circa lo scenario macro-economico di questo anno e le incertezze relative abbiano portato i gestori a detenere un’ampia porzione di liquidità nei portafogli. A questa considerazione aggiungiamo i risultati di un’analisi della European banking authority dalla quale emerge che i depositi a vista, presenti nelle banche dell’Eurozona (di famiglie e imprese), rappresentano circa i due terzi del Pil (livello record). Questo dato dimostra come i risparmiatori siano in cerca di sicurezza (e non solo quelli italiani) e le imprese limitino gli investimenti per le incertezze sul futuro. Se vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno allora consideriamo che la liquidità nel sistema è enorme e, con un briciolo di minore incertezza economica e politica, potrebbe rimettersi in moto. Se invece vogliamo vedere il bicchiere mezzo vuoto allora dobbiamo essere consapevoli che, nell’era dei tassi negativi, detenere cash non solo non remunera il capitale ma addirittura impoverisce i risparmiatori e le imprese accentuando gli effetti negativi sull’economia.

In tema di tassi negativi, infatti, secondo un sondaggio della Bundesbank di fine settembre, il 58% delle banche tedesche scarica i tassi negativi sui clienti corporate: quasi 130 dei 220 istituti oggetto del sondaggio, dichiarava di avere imposto forme di penalizzazione sui depositi delle imprese mentre il 23% applicava interessi negativi alla clientela retail. Forse con il meccanismo di tiering introdotto dalla BCE questo processo potrebbe venire interrotto.

In un recente studio di Intesa SanPaolo si sottolinea come il tema relativo all’uso della leva fiscale in senso anticiclico sia tornato di attualità: infatti, il pieno utilizzo della leva politica fiscale da parte dei paesi virtuosi (in primis Germania e Olanda) e una piena “compliance” per i paesi ad alto debito, non solo eviterebbe la recessione per l’intera Eurozona, ma avrebbe effetti espansivi qualora lo “shock” fosse superiore al punto di Pil nei paesi virtuosi.