Il primo importante appuntamento settimanale lo abbiamo avuto con la Banca Centrale Americana, che ha deciso di mantenere, come da attese, i tassi invariati a 1.50%-1.75%. I tassi nel corso del 2019 sono stati tagliati tre volte e si è ritenuto opportuno non variarli e dichiarare, all’unanimità, che rimarranno invariati per tutto il 2020. La politica monetaria attuale è ritenuta appropriata, anche se il board continuerà a monitorare l’evoluzione della situazione soprattutto relativamente agli sviluppi globali e all’inflazione. La “dot plot”, ovvero la rappresentazione delle stime sul livello dei tassi da parte dei membri del FOMC, vede solo 4 membri su 17 propendere per un rialzo nel 2020, mentre per il 2021 la mediana indica un rialzo così come per il 2022. Le stime di crescita economica americana per il 2019 sono rimaste invariate a 2.2% e quelle per il 2020 a 2%. Nonostante gli sviluppi e i rischi globali le prospettive economiche sono considerate favorevoli.
Giovedì i riflettori erano puntati sul primo consiglio della BCE presieduto dalla francese Christine Lagarde. Anche in questo caso non erano attese variazioni dei tassi che, difatti, sono stati confermati agli attuali livelli. La politica monetaria è stata confermata espansiva, anche se si intravede un miglioramento del quadro macro. A gennaio partirà il processo di revisione della strategia della BCE, che durerà probabilmente tutto l’anno e riguarderà sia la “price stability” che le tematiche ambientali. Le stime di crescita sono passate da 1.1% a 1.2% per il 2019 e da 1.2% a 1.1% per il 2020 confermando poi a 1.4% la crescita per il 2021 e per il 2022. Inflazione attesa stabile a 1.2% questo anno, 1.1% l’anno prossimo e 1.4% e 1.5%, rispettivamente per il 2020 e 2021.
Sempre in tema di banche centrali, citiamo anche la Swiss National Bank che ha lasciato i tassi invariati a -0.75%, ribadendo che i tassi negativi sono l’unico modo per tenere sotto controllo la valuta e aiutare l’economia. Si tratta del quinto anno di tassi negativi, che si trovano al livello più basso del mondo.
Le banche centrali, quindi, hanno confermato la loro “stance” espansiva ma non hanno aggiunto nulla di nuovo a quanto già atteso dai mercati.
La vera svolta è arrivata, però, giovedì con i tweet di Trump, in tema di un possibile “grande accordo” con la Cina. Secondo il Wall Street Journal, gli Stati Uniti avrebbero potuto tagliare del 50% i dazi attualmente presenti e cancellare quelli nuovi previsti per domenica. Dopo una serie di tweet ambigui di Trump, che hanno destabilizzato un po’ i mercati, venerdì è arrivata la conferma da parte del vice ministro al commercio cinese, che ha annunciato il raggiungimento dell’accordo per chiudere la “fase uno” delle negoziazioni. Il risultato immediato si è avuto domenica quando non sono scattati i dazi americani su 160 miliardi di dollari di prodotti cinesi e, quindi, i contro-dazi del 25% che la Cina avrebbe imposto come rappresaglia. L’accordo prevede misure legate al rafforzamento della proprietà intellettuale, al trasferimento forzoso delle tecnologie, all’acquisto di prodotti agricoli e alimentari, all’apertura del mercato dei servizi finanziari, alla promozione degli scambi commerciali e alla trasparenza della normativa. Il responsabile del commercio americano, Robert Lighthizer, ritiene che l’accordo potrà essere firmato definitivamente a gennaio. Secondo Trump la riduzione dei dazi sarà alla base della fase due, che partirà subito dopo la firma della fase uno. Si stima che l’accordo raggiunto farà aumentare di 200 miliardi di dollari gli scambi commerciali fra USA e Cina nei prossimi due anni, gran parte dei quali legata ai beni agricoli.
L’altro evento che ha dato una notevole spinta ai mercati e al sentiment degli investitori, si è avuto venerdì mattina con il risultato delle elezioni in UK: i conservatori di Boris Johnson hanno ottenuto una larga maggioranza. Molto probabile quindi la Brexit sarà, finalmente, attuata il 31 gennaio, con un periodo transitorio che durerà fino alla fine del 2020. Il successo dei conservatori conferma che l’intenzione del popolo britannico è ancora quella del referendum del 2016, ovvero l’uscita dall’Unione Europea. Per contro, però, si è avuta la conferma che Scozia e Irlanda del Nord osteggiano la Brexit e vorrebbero continuare a fare parte della UE. La legge prevede che entrambi i paesi possano chiedere a Johnson il via libera ad un nuovo referendum sull’indipendenza, dato che spetta al Governo di Londra autorizzare il voto. Si apre, pertanto, una fase delicata per la Gran Bretagna sia per la trattativa con la UE, circa l’intesa sui futuri rapporti fra i due blocchi, sia per il rischio di disgregazione del Regno Unito.
In settimana, inoltre, sono stati pubblicati una serie di dati macroeconomici in Cina: i prezzi al consumo, CPI, hanno toccato il massimo degli ultimi otto anni mentre quelli alla produzione, PPI, rimangono in territorio negativo, segnalando che a livello manifatturiero persistono i rischi derivanti dalla guerra commerciale. Bisogna osservare che la salita del CPI è da imputare soprattutto alla componente alimentare, in particolare ai prezzi della carne di maiale che sono saliti notevolmente per un problema di epidemia negli allevamenti. Positivi i dati relativi agli aggregati monetari, sui quali si sta trasmettendo la politica monetaria. Speriamo che il passaggio successivo sia legato ad un aumento dell’attività economica.
In Europa segnaliamo la pubblicazione dello Zew tedesco, che batte le aspettative grazie alla componente coincidente. Ricordiamoci che si tratta di una survey dedicata ad analisti e operatori finanziari, pertanto tende ad essere influenzata dall’andamento dei mercati.
Infine, debutto positivo per l’IPO di Saudi Aramco, che in tre giorni di negoziazioni ha guadagnato quasi il 17%, raggiungendo una capitalizzazione di due mila miliardi di dollari. Consideriamo che il flottante è molto basso, circa 1.5%, e che la quotazione è limitata alla borsa saudita, pertanto, in larga parte in mano a istituzioni locali legate anche al governo.
La settimana si è chiusa in modo positivo per la maggior parte degli asset finanziari, con molti indici azionari sui massimi storici. Gli asset emergenti (equity, bond e valute) hanno sovra-performato grazie al miglioramento del sentiment e al marginale deprezzamento del dollaro americano. Bene anche gli asset UK, che hanno beneficiato dell’esito delle elezioni.
QUESTA SETTIMANA
Dopo una settimana, come quella appena trascorsa, ricca di eventi che hanno condizionato l’andamento dei mercati, quella che si apre oggi dovrebbe essere più tranquilla.
I dati pubblicati in Cina sono stati positivi e fanno ben sperare sul fatto che gli sforzi per fare ripartire la crescita stiano iniziando a funzionare: la produzione industriale è cresciuta del 6.2%, verso attese di +5% e dato precedente +4.7%, e le vendite al dettaglio sono salite dell’8%, verso attese di 7.6% e dato precedente di 7.2%.
Sempre questa mattina sono stati pubblicati in Europa i dati PMI preliminari di dicembre: in generale assistiamo ad un miglioramento di quelli relativi al settore dei servizi ma ad un peggioramento di quelli relativi al settore manifatturiero. Mercoledì in Germania verrà pubblicato l’IFO tedesco, le attese sono per un miglioramento del dato in entrambe le componenti, current assessment e expectations.
Fra le banche centrali segnaliamo che giovedì ci sarà la riunione della BOJ, livello attuale dei tassi -0.10%, della Risksbank, banca centrale svedese, ci si attende un rialzo di 0.25% a 0%, e della BOE, banca centrale inglese, non sono attese variazioni del tasso che dovrebbe rimanere a 0.75%.
Infine, venerdì avremo terza stima del GDP US atteso salire a 2.1% nel 3Q.
Venerdì in Gran Bretagna i deputati cominceranno ad esaminare l’accordo di recesso concordato con la UE, che dovrebbe essere approvato in tempi brevi e senza intoppi. I passaggi successivi saranno i seguenti: entro il 31 gennaio il Regno Unito uscirà dall’Unione Europea, restandone “associato” fino al 31 dicembre con pieno accesso al mercato unico ma senza poter partecipare al processo decisionale comunitario. Durante questi mesi Londra e Bruxelles negozieranno l’intesa, che regolerà i rapporti fra i due blocchi. Entro il primo luglio, e solo per una volta, può essere chiesto di allungare il periodo di transizione per massimo due anni. L’obiettivo dell’Unione Europea è di raggiungere un accordo che preveda “zero quote, zero dazi, zero dumping”. Il rischio è che, in virtù del risultato elettorale, Johnson possa considerarsi legittimato a seguire una linea più dura, arrivando perfino ad una no-deal brexit; l’obiettivo sarebbe quello di ottenere, come promesso da Trump, un grande accordo commerciale con gli Stati Uniti.
La scorsa settimana sono cessate, o meglio sono state parzialmente superate, due grosse incertezze che pesavano sui mercati e la reazione immediata è stata molto forte. Nonostante i mercati azionari fossero sui massimi, la probabile risoluzione della Brexit con un accordo con la UE e un rilassamento delle tensioni fra Cina e Stati Uniti hanno dato un’ulteriore spinta agli indici azionari.
Le incertezze hanno pesato in due modi: 1) sull’economia, dato che hanno frenato gli investimenti e provocato un brusco rallentamento del settore manifatturiero; 2) sui mercati, perché nonostante le performance decisamente molto buone il 2019, fino ad ora, è definito come l’anno del bull-market meno “partecipato” dagli investitori. L’azione delle banche centrali, così come ha penalizzato la fine del 2018, ha rappresentato una grossa spinta sia per i mercati obbligazionari sia per i mercati azionari.
Come abbiamo sempre detto è ora opportuno che diminuiscano le incertezze, soprattutto legate al commercio mondiale, e riparta l’attività economica, in modo tale da generare gli utili necessari per il sostegno delle quotazioni azionarie. Le banche centrali continueranno ad essere espansive. In questo modo potremmo goderci l’ultima fase di un ciclo espansivo, che non sembra ancora giunto al capolinea.