Analisi dei mercati del 23.09.2019

La settimana è stata dominata dal newsflow circa le decisioni delle varie banche centrali.


Partiamo da quella americana: la Fed ha tagliato, come atteso, i tassi di 25 bps a 1.75%-2%. A differenza della BCE, il messaggio della Fed non è risultato così forte. Anche andando ad analizzare i “dots”, ovvero le previsioni dei singoli membri circa il posizionamento dei tassi in futuro, emerge solo un possibile altro taglio entro fine anno e molta dispersione per il periodo successivo. Otto membri si attendono dei tagli mentre 7 dei rialzi. Il mercato dei futures sui Fed Fund sconta, invece, uno o due tagli anche nel 2020. Powell ha sottolineato che sebbene l’economia americana sia solida, il taglio dei tassi è giustificato da debolezza negli investimenti e tensioni commerciali. Per questo motivo, ancora in ambito “insurance cuts”, altri nuovi e più profondi tagli non sono certi ma la Banca Centrale rimane pronta ad intervenire in caso di necessità. Non sono mancate, ovviamente, le critiche da parte di Trump che continua a giudicare inadeguata la politica monetaria americana.

Anche la BOJ ha rispettato le attese, lasciando i tassi invariati e confermando l’obiettivo di riportare verso lo 0% il tasso decennale dei JGB ma ha anche aggiunto che, in caso di peggioramento del quadro generale, è sempre pronta ad utilizzare misure addizionali e che vorrebbe ottenere una curva più inclinata. In questo caso, a differenza della FED, emerge una maggiore propensione ad agire.

Tassi invariati, 0.75%, anche da parte della Bank of England, che si dichiara pronta ad agire qualora le incertezze relative alla Brexit dovessero persistere. Stesso discorso ha fatto la Banca Centrale Svizzera, tassi invariati a -0.75%, che ha tagliato le stime di crescita lasciando intendere che i tassi potranno ulteriormente scendere. Anche la banca svizzera, come la BCE, ha introdotto un sistema di tiering per ridurre il peso dei tassi negativi sulle banche.

L’unica Banca in controtendenza è quella norvegese, che ha alzato i tassi per la quarta volta in un anno portandoli all’1.5%, livello più alto degli ultimi 5 anni, con l’obiettivo di raffreddare l’economia. Quest’ultima, infatti, è sostenuta dagli investimenti petroliferi, da una moneta debole e una politica economica espansiva del governo, in quanto la Norvegia, grazie alle entrate derivanti dal settore energetico, dispone del fondo sovrano più grande del mondo.

Source: Bloomberg

Un po’ di preoccupazione fra qualche operatore è stata destata, nel mercato monetario, dall’impennata dei tassi pronti contro termine overnight che sono arrivati quasi al 10% e che hanno richiesto tre iniezioni di liquidità. Un Repo da 53 miliardi e due da 75, da parte della FED per riportarli ai livelli in linea con i Fed Funds. La causa scatenante sembra si possa attribuire al concatenarsi di due elementi: eccesso di emissioni di Treasury e contestuale pagamento delle imposte per conto delle società che hanno drenato liquidità in dollari. I parallelismi con la crisi del 2008 non sono ovviamente mancati, anche se le circostanze sono evidentemente diverse. Nel 2008 la liquidità non circolava perché c’era sfiducia da parte delle banche e questo rappresentava un rischio sistemico, ora invece il motivo è da ricercarsi nella riduzione del bilancio della Fed e nella politica fiscale espansiva che richiede grandi emissioni di titoli di stato.

Certo in un mondo “inondato” di liquidità sentire che mancano i dollari necessari per fare funzionare il sistema interbancario americano fa impressione. A tale proposito in sede di FOMC si è discusso della possibile ripresa di acquisti di Treasury, una sorta di QE “light”, al fine di mantenere stabili le riserve bancarie. Nel frattempo, la Fed è pronta a fare aste giornaliere per iniettare liquidità fino al 10 ottobre. Vuole evitare che il mercato si innervosisca.

L’azione accomodante delle banche centrali sta incentivando sempre più aziende a collocare obbligazioni per approfittare dei tassi bassi, in certi casi in sostituzione di bond che vengono richiamati. E’ il caso, ad esempio, di Generali che ha annunciato l’emissione sia del suo primo green bond subordinato Tier2 a tasso fisso con scadenza 2030 e il contestuale riacquisto di 3 obbligazioni per circa un miliardo. Si ottiene il duplice obiettivo di abbassare il costo del finanziamento ricalibrando la scadenza.

Le banche italiane, che nel 2018 non hanno quasi emesso bond, viste le tensioni fra Roma e Bruxelles, stanno recuperando: Unicredit ha collocato un’obbligazione subordinata Tier2 per 1.25 miliardi con cedola 2% (240bps sopra mid- swap, livello più basso dal 2011) a dieci anni con call dopo cinque. Si tratta della terza emissione da gennaio che ha permesso alla banca di superare il target del piano di finanziamento per il 2019 e avviato il pre-funding per il 2020.

Banca Intesa ha invece guardato al mercato americano emettendo un bond senior preferred per due miliardi di dollari, prima emissione da gennaio 2018. Anche in questo caso, come per Generali, l’operazione va vista insieme al buyback, fatto a febbraio per analogo ammontare, in quanto consente di abbassare il costo del funding.

Anche Monte dei Paschi è tornata sul mercato con un prestito obbligazionario, senior preferred, coupon 3.625%, di 500 milioni che è stato ben visto dagli investitori.

Il tema dei green bond sembra essere sempre più diffuso: anche Enel ha di recente cavalcato l’onda lanciando un bond da 1.5 miliardi di dollari legato al raggiungimento di obiettivi di sostenibilità. La domanda è stata elevata soprattutto perché sempre più investitori seguono criteri ESG nella selezione e perché tali strumenti sembrano essere più stabili. Da inizio anno le emissioni “green” sono state 10 per un controvalore di 4.25 miliardi, più del doppio del 2018.

Le banche europee hanno cominciato a fare richiesta dei fondi messi a disposizione tramite il nuovo TLTRO3: nell’ultimo meeting BCE sono state rese più favorevoli le condizioni di rifinanziamento estendendole a tre anni, invece di due, e azzerando lo spread che si sarebbe dovuto pagare sul tasso sui depositi. Dai primi dati sembra che la partecipazione sia stata inferiore alle aspettative, 3.4 miliardi di euro a fronte di attese fra i 20 e i 100, ma probabilmente il motivo è opportunistico e una maggiore richiesta emergerà intorno a dicembre. Per partecipare a questa asta, le banche avrebbero dovuto fare richiesta prima di conoscere i nuovi termini fissati dalla BCE e quindi non sarebbe stato molto sensato.

Per quanto riguarda il petrolio il prezzo è tornato in area 58 dollari, dal picco di 63: in base alla prime analisi, Aramco ha stimato che occorreranno due o tre settimane per ripristinare il grosso della produzione, circa il 70%. Il tema delicato rimane quello geopolitico, dato che Stati Uniti e Arabia Saudita sono concordi nel ritenere l’Iran responsabile degli attacchi.

Source: Bloomberg

Sul tema Brexit nessun passo avanti dopo l’incontro tra premier Johnson e Juncker, il punto critico rimane quello del backstop relativo al confine tra le due Irlande. Alcune fonti parlano di Brexit posticipata fino a gennaio 2021. Secondo il presidente dell’Unione Europea, il finlandese Antti Rinne, il premier britannico deve presentare una proposta scritta sulla Brexit entro fine settembre. Johnson, invece, ritiene che il vertice dell’Unione Europea del prossimo 17 ottobre sarà il momento e il luogo giusto per trovare un accordo per un divorzio consensuale ma che è comunque pronto ad affrontare anche una no-deal Brexit.

In Europa è stato pubblicato lo ZEW tedesco che ha mostrato un peggioramento della situazione attuale ma un miglioramento delle aspettative.

Sul fronte commerciale gli Stati Uniti hanno raggiunto un parziale accordo con il Giappone che consente di evitare l’imposizione di dazi sulle auto.

In Spagna il Partito Socialista di Podemos non riesce a formare un governo, il Re Felipe ne prende atto e indice nuove elezioni per il 10 novembre. La “resilienza” dell’economia spagnola è stata alla base del giudizio di Standard&Poor’s che ha alzato il merito di credito da A-/A-2 a A/A-1 con outlook stabile.

La settimana nel complesso si è chiusa con un leggero ritracciamento degli indici azionari, soprattutto americani. Il comparto obbligazionario governativo ha visto una riduzione dei rendimenti (soprattutto americani) che è andata a beneficio delle obbligazioni a spread. L’euro si è indebolito contro quasi tutte le valute.

QUESTA SETTIMANA

Questa mattina in Europa sono stati pubblicati i dati sui PMI preliminari: l’ulteriore debolezza per quelli manifatturieri, dato per Eurozona da 47 a 45.6, e un inizio di debolezza per quelli relativi ai servizi, 52 da 53.5, portano il dato aggregato vicino alla soglia di demarcazione tra espansione e contrazione, siamo a 50.4. Il dato tedesco è particolarmente brutto e, oltre a non lasciare ben sperare sulla ripresa della manifattura tedesca, trascina al ribasso anche la fiducia sui servizi.

I dati sui PMI verranno resi pubblici anche per gli Stati Uniti. Giovedì vedremo anche la terza stima del dato sulla crescita del GDP del secondo trimestre, atteso a 2%, e venerdì i dati su inflazione e ordini durevoli e spese personali che aiuteranno a valutare la tenuta dell’economia americana.

Source: Bloomberg

Sul fronte geopolitico, all’assemblea ONU di questa settimana si incontreranno anche Stati Uniti ed Iran.

Il newsflow in merito alla questione Brexit rimane il driver principale della sterlina. Oggi la Corte Suprema dovrebbe rendere nota la data in cui emetterà la sentenza sulla legittimità o meno della sospensione del parlamento.

L’attenzione rimane sempre puntata sui negoziati tra Cina e Stati Uniti: se da un lato gli Stati Uniti hanno, nei giorni scorsi, sospeso i dazi su 400 beni di importazioni cinesi, la cattiva notizia è la cancellazione di una visita da parte di una delegazione cinese. Situazione sempre molto fluida.